Questo spazio espositivo è così chiamato per la sua localizzazione a lato della chiesa parrocchiale: la prima delle due sale che lo compone è quella dedicata al lavoro della terra, dove la fine dell’inverno segnava l’avvio delle attività agricole.

Fino agli anni ’50-’60, Orino disponeva di una distesa di campi intercalati da filari di alberi da frutta e vite.

Si coltivavano cereali tra cui mais, frumento, segale, avena, orzo e miglio e varietà orticole adatte al clima locale. La prima fase dei lavori nei campi riguardava la preparazione dei terreni e la concimazione. Seguendo l’antica e saggia abitudine del “non si butta via niente”, si utilizzavano le latrine delle corti: il contenuto veniva scaricato in una botte, la bunza, successivamente portata a destinazione da un carro trainato da buoi. Una volta depositato, si lasciava al terreno il tempo di assorbire il concime, lasciandolo riposare prima della semina.

Per lavorare la terra si utilizzavano aratri o attrezzi manuali. L’aratro nacque in tempi antichissimi come risultato del perfezionamento della zappa, per dissodare e rivoltare il terreno. Il suo utilizzo era legato alla geomorfologia del territorio, all’assetto pedologico e a fattori storico etnografici.

Il momento del raccolto si tramutava in occasione di festa: si mieteva in squadra, accompagnando il ritmo dei gesti con canzoni. Gli attrezzi agricoli utilizzati erano la falce delle messi, detta mesura: i mietitori, sia uomini che donne, lavoravano disposti in file: con una mano afferravano gli steli dei cereali e con l’altra impugnavano l’attrezzo. Con un gesto netto recidevano una fascina dietro l’altra e i covoni ottenuti venivano legati e portati nei cortili per le successive lavorazioni.

Si utilizzavano tutte le parti dei cereali: dalla spiga si estraevano le cariossidi e dal resto della pianta era ricavata paglia utilizzata nelle stalle come lettiera.

Alla mietitura seguiva la trebbiatura nell’aia: le spighe venivano percosse al suolo con il correggiato, un attrezzo composto da due aste di legno, legate assieme da una solida cordicella o da una cinghia di cuoio (correggia). Il trebbiatore impugnava il correggiato dalla parte lunga e faceva sbattere la parte corta (vetta) sul grano, attraverso uno slancio circolare.

Per una pulitura del cereale ancor più accurata, si utilizzavano ventilabri e crivelli. Il ventilabro era un canestro di vimini sottili con cui si lanciavano in aria le cariossidi facendole ricadere sullo strumento mentre le piccole impurità – polvere e pula – venivano allontanate dall’aria. I crivelli, invece, aiutavano a ripulire i chicchi dai frammenti di paglia, spighe, sassolini e terra.

Per secoli i contadini e la gente comune mangiava solamente ciò che seminava e lavorare la campagna era un lavoraccio che teneva impegnati tutto l’anno. D’inverno si doveva dare il letame ai campi. Lo si faceva con la bonza cosicché i paesi ‘profumavano’, ma allora erano odori naturali e nessuno ci faceva caso. Dove non si arrivava con il carro si doveva andarci con la brenta sulle spalle, che era come una gerla a doghe in legno (…), la si copriva con cenere che fungeva da stabilizzante.

In primavera si vangava. Un’altra attività da matti, da spaccarsi la schiena e le braccia. Chi ce l’aveva usava un aratro attaccato ad una vacca, e chi poteva si pagava i buoi che rendevano di più. Si piantava in ogni terreno e appezzamento in campagna, nelle radure di montagna e nei giardini perché più si produceva e meno si sarebbe patito la fame.

Preparato il terreno si seminava. Si piantava di tutto: frumento, orzo, segale, fagioli, piselli, cornetti, verze, cipolle, pomodori, insalata, cetrioli, ecc., ma maggiormente granoturco e patate. Durante la guerra si metteva anche lino e canapa e, di nascosto, qualche pianta di tabacco.

Era obbligo guardare le fasi lunari per evitare che i prodotti andassero in canna e diventassero immangiabili, così si seguiva la norma secondo la quale i prodotti che salivano dovessero essere messi in luna calante e quelli che scendevano nella terra in quella crescente. C’erano poi date stabilite per seminare alcuni prodotti come le patate al 25 aprile, i fagioli il 3 maggio per Santa Croce, il mais al primo udire del cuculo. Era anche regola che fagioli, cornetti e altri rampicanti in frasca si mettessero in capo al campo. Terminata la semina la campagna andava seguita: si doveva strappare l’erba crescente, fare i solchi dove servivano, diradare le nuove piantine, ridurre i rametti di pomodoro, irrorare la dorifora col disinfestante. Quando i raccolti erano maturi si coglievano ed erano una festa. Il più difficile era zappare le patate, da non tagliare sennò si dovevano dare agli animali. Dopo c’erano molti sistemi e procedimenti per conservare vari prodotti...”.

Tratto dal libro Urin di temp indrè, Comune di Orino, 2019

Foto: Archivio fotografico Famiglia Cellina

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